Andrea Marchetti

Oltre la Luccica

Racconti di montagna tra Apuane e Dolomiti

Undicesimo volume della collana "Lo Scaffale di Aronte" curata da Enzo Maestripieri


Società Editrice Apuana, 2022
Formato: 12x18,2
Pagine: 280 - Lingua: Italiano

Nuovo

Dalla PRESENTAZIONE

di Enzo Maestripieri

Quella di Andrea Marchetti (Carrara 1944) è una figura di rilievo nell’alpinismo apuano. Se ce ne fosse bisogno, della sua statura (e anche del buon gusto di lui e dei suoi compagni di cordata) fa fede, al di fuori delle Alpi Apuane, un ricco e prestigioso elenco di ripetizioni di grandi classiche: in questo libro si raccontano le salite allo spigolo nord dell’Agner, al Sass Maor per la via Solleder e al pilastro dei Francesi del Crozzon di Brenta; e si possono aggiungere, limitandosi alle grandi montagne, la Fehrmann e la Preuss al Campanile Basso, la Detassis-Giordani-Battistata alla nordest della Brenta Alta, la Vienna alla sudest di Cima d’Ambiez, la Buhl alla ovest di Cima Canali, lo spigolo del Velo alla Cima della Madonna e la Wiessner-Kees allo spigolo ovest del Sass d’Ortiga; e poi la Steger al Catinaccio, la Castiglioni alla Torre Venezia e la Cassin-Ratti alla Torre Trieste, la via degli Scoiattoli a Cima Scotoni, la Comici alla nord della Cima Grande di Lavaredo; e tra tanti nomi illustri non mancano quelli di Vinatzer (Sass de la Luesa e Piz de Ciavazes) e di Messner (via del Gran Muro al Sasso della Croce). Al di fuori delle Dolomiti bisogna almeno rammentare, nelle Alpi Centrali, il pilastro nordovest del Pizzo Cengalo e il Picco Luigi Amedeo per la via Nusdeo-Taldo, ripetuta in età già matura.

Nelle Alpi Apuane, suo territorio d’elezione, Marchetti ha aperto, tra molte altre vie e limitandosi anche qui alle montagne principali: la classica via dei Carrarini alla parete sudovest del Contrario (uno dei suoi luoghi del cuore; 1975); sulla parete nord del Pizzo d’Uccello una via nel 1979 con Ratti e una nel 1985 (via Toni Hiebeler); la via Tiziana sul versante sud della medesima montagna (con Ratti e Còdega, 1974), molto ripetuta nella sezione superiore; la via dei Carrarini sulla parete sudest della Forbice (con Ratti e Martini, 1974), e una sulla parete nord del Sagro (1983), assai notevole perché in buona parte su roccia in un versante verticale dove ce n’è poca.

Basterebbe tutto questo a giustificare un libro autobiografico di montagna come Oltre la Luccica;ma già il titolo allude a qualcosa di diverso da un semplice curriculum commentato. Cominciamo, però, con una guida alla lettura: libro autobiografico? sì, ma non nel senso di una narrazione lineare ed esaustiva. Si tratta invece di otto racconti autonomi (tra l’altro scritti in tempi diversi) che, riferendo di certe salite o di altre attività in montagna, mettono a fuoco alcune esperienze in quell’ambiente che sono state importanti per chi le ha vissute; ma senz’alcuna intenzione di esibire una lista di ascensioni che pure, se resa nota nella sua interezza a dispetto del carattere schivo di Marchetti, gli renderebbe giustizia. Inoltre, per uno scrupolo di riservatezza, due di questi racconti sono scritti in terza persona, a interporre un qualche diaframma tra una nuda cronaca di nomi e fatti (che a Marchetti interessano meno delle relative emozioni) e la loro esibizione pubblica; ma non si sarà indiscreti a precisare, a beneficio del lettore, che sotto l’Emilio dell’ultimo capitolo si cela naturalmente l’autore, e soprattutto che nel secondo capitolo, che dà il titolo al libro e in cui campeggiano con pari rilievo i personaggi di Alessandro detto Lissàn e di Franco, se l’alter ego dell’autore è, per sua stessa ammissione, Lissàn, è anche vero che molti dei moti interiori di Franco sembrano avere sapore autobiografico. Per il resto, un cultore di montagna carrarino capirà subito quali sono i cognomi - taciuti da Marchetti - da abbinare ai nomi di Pietro, Renzo, Franco (in realtà Gianfranco), Mirko ecc.: tutte figure di alpinisti concittadini di Marchetti e presenti con rilievo maggiore o minore nel pantheon dell’alpinismo locale e non solo. Nell’ultimo capitolo, infine, Pietro e Riccardo sono presentati come i fratelli Todisco; nel libro si citano anche - con nome e cognome - altri noti alpinisti come Fedele Codega e Mario Piotti; a Claudio Ratti è dedicato un denso e dolente necrologio; e a Silvano Bonelli un fulmineo ritratto sufficiente a scolpire un carattere: “Bonelli, che era più grande di me e non faceva tanti complimenti, forse mi avrebbe rifilato anche una sberla [!]”: nel caso, cioè, che il più giovane Marchetti avesse chiesto al rinomato alpinista, come era stato tentato di fare, di accompagnarlo in una certa salita avventurosa, più foriera di rischi che di gloria, della quale si parlerà tra poco.

Oltre la Luccica: cioè oltre Foce Luccica, valico ai piedi del M. Spallone tra Carrara (Colonnata) e Massa; per Franco ragazzo (ma certamente anche per Marchetti) passaggio verso le grandi montagne situate al di là (ad es. il Contrario), e in definitiva portone d’accesso all’ignoto. I sogni d’avventura e di scoperta sono vivi in Marchetti fin dai suoi anni d’apprendistato, e spiegano il lato più segreto della sua carriera apuana e la parte più originale del libro. Infatti, al di là delle nuove vie citate sopra, delle ripetizioni di tutte le classiche, e del suo cospicuo contributo alla valorizzazione della notissima palestra di arrampicata alle Guglie di Vacchereccia, nell’alpinismo apuano di Marchetti spicca un’altra tendenza, meno vistosa e di apparenza più dimessa (ma congeniale a un “carattere un po’ anarcoide e selvatico”): quella che lo porta a scoprire e a percorrere itinerari su strutture orografiche evidentissime, ma su terreno informe e infido di roccia, franumi, erba e altra vegetazione: terreno che ripugna all’alpinista puro per le insidie e la bassa difficoltà tecnica, che non dà né lustro né speciali citazioni su guide o annuari, ma che offre la gioia di muoversi su terreno semivergine dove al massimo si è stati preceduti da qualche intrepido pastore o cavatore; e che parla al cuore anche di chi, semplice escursionista (o poco più) meno ardito di Marchetti, in itinerari del genere sappia riconoscere la caratteristica forse più peculiare del muoversi in Apuane. Pareti di roccia solida si trovano dappertutto al mondo; ma apprezzare il rotto apuano e le sue erbe verticali non è da tutti, e per l’apuanista verace questo è un titolo di merito e un segno di riconoscimento. Quanto al pericolo, s’intende che nessuno che sia sano di mente lo va a cercare apposta; ma comunque, contro la pretesa odierna della sicurezza ad ogni costo: “… dove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva” (Hölderlin, Patmos). Ed ecco, quindi, l’altro curriculum - meno sfavillante ma per alcuni anche più prezioso - di Marchetti: la cresta sudovest del Picco di Navola (in solitaria) e la cresta sudovest della Coda del Cavallo, ambedue presumibilmente prime ascensioni (almeno turistiche), la cresta dello Zucco Nero alla Tambura, le creste rotte ma bellissime dello splendido M. Maggiore - più del Sagro il vero monte di Carrara -, la cresta dei Pradacetti alla Punta Questa (storica via dei primi salitori Questa e Figari, che quasi nessuno ripete), e chissà che altro da lui mai raccontato; e, d’inverno, la salita di alcuni canali sconosciuti allo Spallone, alla Forbice e alla Tambura. E finalmente la salita che dà il titolo a un capitolo del libro e anche a questa prefazione: la salita in solitaria e in prima assoluta (e probabilmente ultima!) al canale Bore di Sagro sul versante est di Spallone e Sagro, che è la salita a cui si alludeva sopra rammentando Bonelli. Scrive Marchetti: “La roccia era assai sfasciata anche se in fondo bastava ripulirla un poco cercando la parte sana e cercare di evitare quegli appigli palesemente instabili. Si trattava in sostanza di un ‘marcio sano’ che richiedeva semplicemente più attenzione e di distribuire oculatamente il peso del corpo per sollecitare il meno possibile i vari appoggi”.

‘Marcio sano’, che beffardo ossimoro! eppure si attaglia perfettamente a tanta roccia apuana, e anche alla relativa tecnica d’ ‘arrampicata’, ivi compresa la necessaria bonifica preliminare; passando poi al paleo quasi verticale della parte alta delle Bore di Sagro, tutto sta (come spiega Marchetti con il suo quasi impercettibile humour) nel muoversi con regolarità senza scarti e strappi e nel non indugiare troppo con il piede su una zolla di terra e paleo, che alla lunga si piegherebbe e cederebbe; quanto alle mani, bisognerà abbrancare meglio che si può i ciuffi d’erba (magari torcendoli come insegnano altri esperti del ramo) e anche, come ultima ratio, piantare le dita più in profondità che si può nel terriccio, meglio se arcuandole a mo’ di uncini. Insomma, conclude Marchetti: si tratta di T.T.A. (Tipico Terreno Apuano), con buona pace degli alpinisti schifiltosi. Riguardo infine alla scala delle difficoltà, si può qui ricorrere alla faceta gradazione di un altro amatore di tal genere di terreni, un anziano alpinista pratese della specie di Marchetti, a lui noto e come lui ritroso e modesto: “III di paleo”.

Certo, conclude Marchetti, “vallo a spiegare a qualcuno il discorso del ‘marcio sano’, mi avrebbero preso per matto”. Ma noi, suoi ammiratori e modesti epigoni molti gradi al di sotto (su roccia o paleo o altro indefinibile terreno apuano), capiamo perfettamente e apprezziamo (perché “ognuno riconosce i suoi”, dice un altro poeta): complimenti per le tue avventure - meglio: esperienze di vita - in montagna, Andrea! e grazie del tuo avvincente libro.

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